La sintesi pariniana

Durante lo svolgersi delle fitte vicende letterarie che condizionano la linea di sviluppo della «nuova letteratura» di desanctisiana memoria, sicura e tenace, fedele ai suoi nuclei essenziali, si distende la poesia pariniana che, nutrita di esperienze diverse, ma congeniali, le guida con un’eccezionale chiarezza di poetica ad una alta sintesi del Settecento arcadico e illuministico avviato al neoclassicismo. In questa lunga carriera certi incontri di date ci invitano ad una preliminare osservazione.

1763, pubblicazione dell’Ossian cesarottiano e del Mezzogiorno pariniano; 1795, Il Messaggio e 1798, il primo Ortis.

La poetica pariniana ha risentito e riportato ad una utilizzazione superiore le esperienze artistiche arcadiche, illuministiche, sensistiche, si è arricchita soprattutto con un interno sviluppo dei motivi sensistici fino ad un classicismo animato e sensibile, ma ha mantenuto un cammino parallelo e staccato dai preannunci preromantici, pur preparando con il suo integralismo morale, con la sua «missione della poesia» fatta coincidere con un senso nuovo di civiltà letteraria, atteggiamenti tipici del romanticismo italiano, specialmente milieu «Conciliatore». Sí che nella linea civile del secolo (piú integralmente di quanto il De Sanctis la considerò nella persona divisa in figura morale e abilità artistica) la poetica pariniana poteva meritare la personalizzazione ed il mito costruitone dal Foscolo, ripreso piú tardi dal Leopardi, e la sua lezione doveva servire a qualificare un romanticismo cosí regolato e virile, a costruirgli una speciale tradizione classicistica, non puramente ornamentale e riflessa: donde una base comune al neoclassicismo e al romanticismo ufficiale. Ciò che meglio può esser visto nel concreto esame degli inizi romantici ottocenteschi, della tipica morfologia della scuola 1816 e della corrente neoclassica.

Ma un’esposizione della poetica pariniana sentita nel pieno del Settecento offre il vantaggio di un accertamento non tendenzioso della sua natura chiaramente illuministica, senza concessioni importanti al nuovo gusto che vedremo svilupparsi e concretarsi nei capitoli successivi, senza chiare intuizioni che la portino fuori dei suoi limiti, senza la suggestione della nuova sensibilità nelle sue punte piú rinnovatrici, e pure vitale nella sua ideale rappresentatività della piú alta pienezza settecentesca. E costituirà cosí come un potente spaccato di quella cultura poetica da cui il nuovo gusto, la nuova poetica preromantica viene lentamente, e in mezzo ad equivoci e ritorni, distaccandosi: e la contemporaneità di questa rivoluzione letteraria e della poetica pariniana conferma la ricca complessità del secondo Settecento, le ragioni ancor vive di una sintesi illuministica, mentre funge da potente sfondo su cui le nuove soluzioni si stagliano, pur legate spesso e sfumanti in un equivoco alone.

La poetica del Parini ha fatto notoriamente i suoi conti con l’esperienza arcadica, superandola sulla base di un’attentissima cura classicheggiante che fece dire al Carducci del primo Parini: «un arcade arretrato al Cinquecento», tanto Ripano Eupilino consuma nelle sue brevi e raffinate poesie un’abilità di stilista e di linguista tecnico che gli arcadi non raggiungevano nel loro classicismo piú approssimativo e schematico e nel loro scarso gusto di una lingua non sommaria. (Si ricordi al contrario come la breve storia degli scrittori italiani nei Principî delle belle lettere sarà tutta una storia della lingua letteraria).

La vaga primavera

ecco che a noi sen viene;

e sparge le serene

aure di molli odori.

L’erbe novelle e i fiori

ornano il colle e il prato:

torna a veder l’amato

nido la rondinella.[1]

Schema e musica convenzionali, ma un gusto di precisione sensibile, «le serene aure di molli odori», e presto un amore per la riproduzione realistica ed elegante degli oggetti che troverà la sua base teorica nell’illuminismo sensistico, riportando la sua breve musica aggraziata a quel languore che non è ancora il languore sentimentale dei preromantici; beato, lento, sensualmente tenue, senza impeti e senza quei complessi di sensibilità e sentimento che sono l’indice del passaggio dal sensismo al romanticismo.

Si può dire, leggendo le poesie giovanili del Parini e poi le Odi ed il Giorno, che l’Arcadia con la sua poetica si sia tutta bruciata, nel suo meglio, in lui ed abbia trovato in lui e nella sua definitiva esperienza illuministica una specie di inveramento superiore, di perfezione che non trova certo l’Arcadia «preromantica» nel suo tentativo di rinnovarsi in una musica di altra origine anche se equivocamente scambiabile per estenuamento di canzonetta. I suoi residui di melodia facile, di femminei brividi passeranno solo in parte e in maniera secondaria in alcuni preromantici e perfino in qualche romantico italiano tipo Carrer, ma la vera vitalità dell’Arcadia ha avuto l’ultima espressione e soluzione veramente poetica nella sintesi del Parini.

E c’era già in Ripano Eupilino, accanto alla tenue musica arcadica, un abbandono calmo e preciso a un gusto del paesaggio piú realistico, alla descrizione di cose, di oggetti meno vaghi, piú individuati che, sia pure nella forma tradizionale del capitolo comico in cui era consuetudinaria, dall’Ariosto delle Satire in poi, una descrittività poco stilizzata, ci collega al Parini delle opere mature, al Parini della poetica illuministico-sensistica con cui si può meglio fare il punto della situazione letteraria italiana alla metà del secolo, prima dei nuovi spunti e delle nuove figure poetiche:

Là su l’alto del colle, e da quel lato

che piú guarda il meriggio e che del monte

schermo si fa contro Aquilon gelato,

siede una casa con bei campi a fronte,

ove, serpendo, affrettasi un ruscello

puro, che cade dall’alpina fonte.

E una selvetta fresca, e del piú bello

verde che v’abbia, pende sul declive

de la valletta, che fa strada a quello;

e dei vigneti salgon tra le vive

pietre dell’erta, e miste ad essi piante

di mandorle gentili e molli ulive.

Poi dalla parte dove il fiammeggiante

sol declinando porta l’alba e il zelo

dell’opre a gente ch’è da noi distante,

veggonsi e paschi e con argenteo velo

estesi laghi e boschi e poggi ed erti

monti a la fine e l’alpi azzurre e il cielo.[2]

È poi nelle Odi e nel Giorno che questa tendenza di gusto trova l’appoggio in una sicurezza poetica, di cultura letteraria che mancava al giovane Parini: sicurezza di poetica e di cultura che dalla metà del secolo in poi sentiamo fortissima in tutte le espressioni letterarie e non letterarie del poeta e proprio nella sua interpretazione fondamentale della vita fino agli ultimi anni, quando, in una separazione piú combattiva dai nuovi motivi, egli rimase refrattario ad ogni nuova aura poetica, e giudicò aspramente sempre ogni abbandono della purezza tradizionale ed ogni tradimento al vangelo sensistico-razionalistico.

Si legga ad esempio questo «pensiero», ad accertare il tipo di sensibilità pariniana, priva di ogni fermento di rivolta, tutta controllata e tranquilla nel suo limite piacevole, soddisfatta delle sensazioni che non sfociano come nei romantici in un bisogno di assoluto, di estensione illimitata e negatrice della particolare e piacevole sensazione: un mondo di sensazioni che attende di essere volto in una direzione fremente e appassionata, ma qui ancor perfetto e fermo nei suoi limiti di coerente cultura.

«Dio e la natura ci comandano di vivere non già solamente con una legge scritta e pubblicata, come proveniente dai motivi superiori della religione e dall’amore dell’ordine universale ben conosciuto; ma molto piú con una infinita e variata serie di sensazioni piacevoli, delle quali, rispettivamente a noi, è composto e formato il nostro vivere»[3].

Tono pacato, leggermente edonistico nella sua serietà, mosso da un’indagine ben diversa da quella che il sensista Verri opererà in una inconscia direzione preromantica. E se si accettano le dichiarazioni fatte in sede letteraria sulla poesia nel Discorso sopra la poesia, da cui il Petrini[4] con grandissima fatica riesce a cavare una generica frase di apparenza nuova: «e non ci diletta ugualmente, come l’aspetto di una deliziosa e fiorita collina, l’ispido, il nudo desolato, l’orrido d’una montagna, d’un deserto od una collina?» (e il Petrini commenta: «si direbbe una difesa della poesia ossianesca»), è evidente che, nel possibile equivoco di quegli anni contraddittori e complessi, l’accento pariniano batte soprattutto sul diletto, su di una concezione prevalentemente edonistica del bello orrido molto vicina al gusto arcadico che, come in una scena teatrale, non aveva esitato a portare nel suo clima idillico un contrasto piacevole e rapidamente limitato di un frammento selvaggio in mezzo al beato paesaggio pastorale. E si pensi al Solitario bosco ombroso del Rolli. Ma se inquadriamo quella frase in tutto il testo, troveremo ben chiaramente una professione di fede illuministica non dubbia, che indirizza i possibili spunti apparentemente eterogenei ad un comune fine di poetica utile dulci, animata da una viva sensibilità e quindi anche da sensazioni in contrasto, non svolta però in predominio sentimentale e in guida incontrollata della fantasia.

«Lo spirito filosofico, che, quasi genio felice sorto a dominar la letteratura di questo secolo, scorre, colla facella della verità accesa nelle mani, non piú l’Inghilterra, la Francia e l’Italia, ma la Germania e le Spagne, dissipando le dense tenebre de’ pregiudizi autorizzati dalla lunga età e dalle venerande barbe de’ nostri maggiori, finalmente perviene a ristabilire nel loro trono il buon senso e la ragione. A lui si debbono i progressi che quasi subitamente hanno fatto per ogni dove le scienze tutte, e il grado di perfezione a cui sono arrivate le arti... La poesia medesima... ha nuovi lumi acquistati dallo spirito filosofico e, comeché abbia per una parte perduti i pomposi titoli che non solo i poeti, ma i maggiori filosofi ancora donati le aveano, di “celeste”, di “divina” e di “maestra di tutte le cose”, ha nondimeno ricevuto dall’altra un merito meno elevato, a dir vero, ma piú solido e piú certo»[5].

Merito di diletto e di civilizzazione che la poesia tanto piú ottiene quanto piú, lungi da un cartesianismo stricto sensu, «tocca e muove» per mezzo delle sensazioni: «La poesia che consiste nel puro torno del pensiero, nell’eleganza della espressione, nell’armonia del verso, è come un alto e reale palagio, che in noi desta la maraviglia ma non ci penetra al cuore. Al contrario la poesia che tocca e muove, è un grazioso prospetto della campagna che ci allaga e ci inonda di dolcezza il seno»[6].

E si pensi, per rendersi conto delle esatte relazioni nel Parini tra ragione e sensibilità, all’ideale espresso nella Educazione:

Perché sí ardenti affetti

nel core il Ciel ti pose?

Questi a Ragion commetti

e tu vedrai gran cose:

quindi l’alta rettrice

somma virtude elice.

I sentimenti innegabili, le passioni naturali istintive, la sensibilità affermata dal sensismo, sono ispirati nell’uomo proprio perché vengano poi affidati alla ragione e perché questa «alta rettrice» dal governo saggio delle passioni tragga una grande virtú, formi uomini fortemente virtuosi. Un sensismo razionalistico, non preromantico, che giudica la bontà delle sensazioni, dei sentimenti dal loro scopo morale

(Dalla lor meta han lode,

figlio, gli affetti umani),

mentre per i preromantici e i romantici lo scopo morale sarà piuttosto comprovato dalla intensità sentimentale che lo governa e le passioni saranno buone in se stesse, saranno amate per la loro libera spontaneità.

Dunque un muoversi della sensibilità entro il regno della ragione che utilizza il diletto, il piacevole, il commovente ad un suo scopo finalmente didascalico, magari in seconda istanza, e che autorizza una vivacità correttiva e quindi funzionale all’illuministica educazione, che non procede tanto per idee chiare e distinte quanto per indirizzo saggio e razionale di sensazioni indispensabili ed armoniche. Ma comunque ricorso ultimo alla ragione che cala continuamente anche nel giudizio estetico proprio nel suo equivalente piú duramente veristico, col suo controllo matematico: come quando, a proposito di un sonetto del Cassiani, il Parini particolarizza cosí la sua critica: «Si vedono prima cadere le penne che il corpo d’Icaro, ciò che è contro la ragione de’ pesi e de’ volumi»[7].

Dopo questa professione di fede di illuminismo sensistico e razionalistico nella loro sintesi piú equilibrata e settecentesca, la poetica pariniana procede sempre piú al di là della semplice grazia arcadica che vi rimane solo come un elemento gustoso e vaporoso, come spolverino di vaghezza e di tenerezza sorridente da spargersi su composizioni piú solide e piú precise, in un intento di rafforzare il potere decoroso ed educativo della civiltà sentita ormai come integrale e necessaria.

Va per negletta via

ognor l’util cercando

l’accesa fantasia,

che sol felice è quando

l’utile unir può al vanto

di lusinghevol canto.

Ecco il programma poetico non privo di polemica contro gli arcadi e di entusiasmo innovatore («negletta via»), che nella Salubrità dell’aria chiarisce la sua tradizionale origine oraziana («omne tulit punctum qui miscuit utile dulci, delectando pariterque monendo»), trovando la sua massima sensibilità proprio in un clima utilitaristico ed edonistico come quello del Settecento illuministico. Programma cui il Parini restò sostanzialmente fedele anche quando, nella vecchiaia, accentuò il motivo neoclassico come ricerca «del decente gentil, del raro e bello» e secondo i versi di Alla Musa richiese per il poeta una condizione di beata semplicità e di purezza:

Sai tu, vergine dea, chi la parola

modulata da te, gusta od imita,

onde ingenuo piacer sgorga, e consola

l’umana vita?

Colui cui diede il ciel placido senso

e puri affetti e semplice costume.

Poesia che vuole insegnare, ma rivolgendosi ad un pubblico eletto, ben lontana dal popolarismo romantico:

orecchio ama placato,

la Musa e mente arguta e cor gentile.

Versi che tra l’altro realizzano mirabilmente quella trasparenza tra intellettuale e sensibile, quella distensione perfetta che sono la meta piú alta del Settecento classicistico.

Anche allora in quella richiesta di calma e di silenzio, che costituisce il fascino della sua ultima produzione, il Parini, perduto l’entusiasmo giovanile di illuminista acceso e combattivo, si manteneva perfettamente nel giro della sua poetica decorosa e civilizzatrice e di una concezione della poesia come estrema prova di civiltà, in un atteggiamento sobrio, umano, di attenzione precisa, di moderazione sensibile, di lontananza da ogni eccesso passionale, da ogni urto irrazionale.

Nelle Odi poi l’aspetto illuministico educativo della poetica pariniana predomina nel suo lato piú nuovo rispetto all’Arcadia e piú lontano dai nuovi interessi e dalle nuove cadenze preromantiche. Lo stesso schema, gli stessi soggetti della maggior parte di esse ci dicono già di per sé a quale scopo mirasse il poeta: non ad un canto disinteressato, ad una pura ricerca del piacevole, come nell’Arcadia o comunque ad una costruzione integralmente fantastica, ma ad una poesia efficace (e per ciò ricca il piú possibile di quell’elegante vivacità di sensazioni che, come abbiamo visto, il Parini riteneva essenziale per «muovere e toccare») in funzione educativa, nel compito di fugare le «tenebre» della passiva ignoranza, della superstizione, di illuminare le menti dei concittadini[8] mediante la forza della Ragione (quasi deificata e protagonista assoluta e provvidenziale), mediante esempi concreti in cui le forme della ragione calano sensibilizzandosi e razionalizzando insieme le stesse linee del canto.

Un didascalismo ben piú preciso, concreto e civile e soprattutto coerente tra poetica e cultura di quanto non sia, ad es., la poetica eteronoma del Cinquecento in cui o prevaleva un descrittivismo linguaiolo o, come nel precetto tassesco «il ver condendo in molli versi», il vero rimane una vaga ed illusoria verità e l’essenziale sono i «molli» versi. Qui invece il verso e il «vero» rampollano da un unitario desiderio di chiarezza concreta, da un’unica esigenza morale e artistica, da un nuovo senso del letterato che si spende in singoli problemi concreti sentiti non come esterni al suo interesse letterario o come puro materiale da decorare: il problema della parità femminile (La laurea), quello della giustizia preventiva (Il bisogno), quello dell’igiene (La salubrità dell’aria) ecc. Già i titoli delle Odi ci indicano i fini e il tono della loro poetica: Il bisogno, L’innesto del vaiuolo, La magistratura, L’impostura ecc., e indicativa è la loro parentela con articoli del «Caffè» e con articoli dello stesso Parini sulla «Gazzetta di Milano». E l’eleganza in cui vengono a vivere nelle Odi questi schemi polemici e didascalici non è disinteressato gusto di fregio quanto armonizzazione, espressione integrale di una evidenza delle cose, della loro efficacia descrittiva e moralmente suggestiva proprio secondo le parole del Batteux: «La poesia ci deve toccare descrivendo con la massima perfezione gli oggetti sí che questi possano accrescere le nostre idee»[9], che il Parini applica piú sperimentalmente che cartesianamente con una estrema fedeltà al suo illuminismo sensistico. Quando si rilegge la descrizione delle «navazze» nella Salubrità dell’aria, si ha la misura non solo dell’audacia pariniana (audacia che indica l’estrema convinzione illuministica riformatrice e la convinzione della forza della sua poesia), ma del risultato efficace che il poeta ottiene con una eleganza che parte da volontà di precisione, di impressione concreta, sensoriale.

Né a pena cadde il sole

che vaganti latrine

con spalancate gole

lustran ogni confine

de la città che desta

beve l’aura molesta.[10]

Una nuda prosa non darebbe l’«effetto» e il pregnante suggerimento espressivo di questi versi cosí misurati, cosí ragionati e pure cosí impressionanti, quasi olfattivi con la parola crudamente precisa sollevata e resa piú impassibile dall’aggettivazione aulica («vaganti latrine»), con l’impressione realistica e fantastica delle «spalancate gole», che spandono «l’aura molesta», in cui la dosatura di aulico e di realistico è perfetta e motivata da un unico principio poetico. Precisione ed efficacia sensibile che il Parini cerca di ottenere con lo stringere l’immagine in una perfezione, in una eternità non prosastica, che non poteva non essere, a questa scuola oraziana, la perfezione classica. Donde si chiarisce sempre meglio questo classicismo pariniano che ha origini diverse dal neoclassicismo alla Winckelmann, e che anche nel neoclassicismo italiano, in Foscolo e Leopardi passerà come scuola di stile, come scuola di serietà creativa e di letteraria missione, mentre una sua presenza piú precisa giungerà anche stonata di fronte a ben altri motivi di perfezione assoluta che giustificano il classicismo di questi nostri grandi romantici.

A volte la ricerca volgarizzatrice fa degenerare la poesia pariniana in una estrema facilità discorsiva, ma ciò avviene contro l’ispirazione e contro il nucleo piú intimo della poetica del Parini, in cui la funzione illuministica porta non tendenza alla faciloneria ma anzi alla compendiosità, alla precisazione, e semmai la discorsività rimane come tono fluido e sereno, ispirato dal modello celeste del procedere di una Ragione non sterile e puramente matematica:

Gran prole era di Giove

il magnanimo Alcide;

ah quante egli fa prove,

e quanti mostri ancide

onde s’innalzi poi

al seggio degli eroi?[11]

Da questa sua convinzione, che non è solo riflesso di cultura ma accordo con una innata disposizione, la sua poetica deriva, nella piú alta sintesi illuministica della poesia settecentesca non solo italiana, questa ricchezza graduata di toni (non senz’altro monotonia), e, sulla base di un mediocre «buon senso», l’amore per una medietà lirica che può alzarsi fino a moti di sdegno sempre frenati dall’ironia e da una misura di precisione definitoria, per una sostanziale distensione in cui il fremito polemico si placa a tono di mondo vero costruito su misure naturali, semplici, ariose, su sensazioni e ragione la cui poeticità non è impeto e dramma, ma idillio sereno e convinto:

Le giovinette con le man di rosa

idalio mirto coglieranno un giorno.[12]

Sicché natura-ragione, sensibilità ragionevole son sempre i termini veri del problema pariniano, le ragioni limitate e profonde prima della tempesta romantica, dopo la piú superficiale letizia arcadica; il segreto della sua «verità» viva in ogni forma della sua poetica, nel suo tono medio che è il trionfo poetico (ben piú che la voltairiana ironia ed epica, ben piú che la miniaturistica sensualità di un Parny, ben piú che la saggezza di un Lessing) della tipica medietas settecentesca, del vigore sano e lucido di un’epoca che nella sua potente curiosità, nel suo umanesimo indagatore e rivoluzionario, si controllava sempre nel buon senso, nella convergenza di tutti gli interessi non in alta solitudine, ma in una armonia di sensibilità e di ragione in termini di concreta civiltà, con limiti da un lato moralistici, dall’altro inevitabilmente edonistici.

Il Parini fu il poeta (l’espressione cioè, non solo il decoratore) di questa civiltà umana, di un umanitarismo che importava proprio una figura poetica non estrema, non passionale ma equilibrata e precisa: donde i limiti e l’accusa desanctisiana di «artista» vanificabile storicamente nel controllo della poetica, ma inconsciamente vera per il clima poetico generale in cui quella poetica personale si inseriva traendone il massimo in linee già inizialmente, nativamente poco slanciate e libere. E come il mondo romantico ama quale suo tipo umano l’eroe d’eccezione, la belle dame sans merci, la personalità viva del proprio impeto inqualificato fino ai limiti della decadenza romantica, e l’ideale illuministico è il cittadino, l’uomo medio, la misura di un’umanità generosamente antiaristocratica, cosí il figurino del poeta romantico è quello di un cuore (il «cor cordium» Shelley) nel suo sfrenato e dolente pulsare, mentre quello del poeta settecentesco è una ordinata sensibilità in un programmatico acquisto di maggiore ordine e di maggiore naturalezza che sottendono non esteriormente didascalismo efficace, precisione elegante, perfetta.

Tutte le Odi sono esemplificazioni di quanto abbiamo detto, sia quelle galanti, legate piú al fascino edonistico delle sensazioni emananti da un mondo condannato nella sua disumanità, ma non negato nella sua perfezione estetica e nel suo fondo di civiltà misurata ed estensibile con una aggiunta di maggior sanità naturale[13], sia quelle piú crudamente illuministiche che non si risolvono mai in puro discorso lontano da misure poetiche altrove affermate. Nel Bisogno, ad esempio (pubblicato un anno dopo l’uscita del libro del Beccaria: indice di questa perfetta consonanza di un ambiente attivo e coerente, di una poetica pienamente «contemporanea»), tutta la costruzione si svolge nei termini di una intenzione creatrice nata sulla sintesi letteraria illuministica.

L’argomento, il protagonista (gli eroi del Parini sono il magistrato giusto, il medico, la fanciulla studiosa) vengono stretti in una poesia senza grandezza, che mira a sottolineare i nodi di un sensibilizzato ragionamento (la legge, emanazione della Ragione, è infallibile, ma i giudici devono tener conto che i rei sono stati sollecitati dal bisogno che non permette loro di vivere nella vera condizione umana, nella pura luce della Ragione) con un breve ritmo di canto, con un’aggettivazione sempre perspicua, con una costruzione mai involuta e d’altronde con la concisione e la elettezza del linguaggio classico. Semplicità che può degenerare anche in facilità discorsiva, ma che centralmente coincide con il tono di idealità diffuse, di verità del tempo, con un tono socievole che il Parini sa mantenere anche nei momenti di maggiore sdegno o di maggiore eleganza lirica, e che aderisce all’intenzione antiromantica di scarsa preminenza personale, di poeta come voce di civiltà.

La cura sensistica di questa poetica è certo piú precisata nel Giorno e il «bianco cumulo di neve alpina» è meno decisivo della continua volontà del Giorno di ricreazione sensibile ed efficace sulla sensibilità del lettore di quelli che il Parini chiamava «oggetti dell’arte»: le cose nella loro evidenza strutturale, non nella loro simbolicità, nella loro impressione di macchia, di colore, di pretesto fantastico. Si pensi subito ai «pruriginosi cibi», al «domabile» midollo del cervello e in contrario ai termini del romanticismo sia pure neoclassico, agli «occhi ridenti e fuggitivi» di Silvia, alle «urne confortate di pianto» del Foscolo. In questo un’estrema eleganza che nasce dal suo mondo di tensione alle «vergini muse», all’assoluta perfezione, viva di magnanimità, nel Leopardi un fugace trascorrere di immagine in cui l’evidenza poetica è proprio nella sua mobilità sentimentale, nella sua perfezione non marmorea. Il classicismo invece delle espressioni pariniane nasce da un’esigenza di pregnante definizione e ricreazione di un oggetto nella sua dimensione sensoriale. Studio e tendenza che ben si commenta sulle pagine dei teorici sensisti e per esempio sulle Ricerche sullo stile del Beccaria che, come vedremo, indicano anche qualcosa di piú nuovo, ma che nel gusto da cui son mosse sembrano un’introduzione alla tecnica stilistica del Giorno: «Noioso e intollerabile è il dire bianca neve, perché il nome di quella immediatamente risveglia la bianchezza, e non altro quasi risveglia: sarà però piú soffribile e meno ingrato il dire la fredda neve, sí perché l’aggiunto non è immediatamente suggerito dal nome, e non esclude la percezione della qualità dominante, che è la bianchezza, dal nome di neve sufficientemente indicata; ma ancora perché l’aggiunto di fredda indica necessariamente una viva sensazione appartenente a tutt’altro senso che a quello della vista: onde due sensi sono occupati col dire fredda neve ed un solo col dire bianca neve». Mentre ci piace «bianco fiocco di neve». «Il primo nome di neve, in primo luogo, risveglia l’idea di un volume sufficientemente grande, onde la ripetizione di questa qualità dominante non fa che allungare l’uniformità di una tale sensazione; ma la voce di fiocco indica una minima particella, e però una piccola sensazione. L’aggiunto di bianchezza dunque non fa che ingrandire e fermare nella fantasia una qualità che le sarebbe sfuggita»[14]. Ecco il campo di studio entro cui si muove il Parini nella sua ricerca di uno stile che, ispirato dalla perspicuità dei classici (Orazio piú che Virgilio), esprimesse perfettamente il suo bisogno di una poesia lucida e sensibile, senza immagini esaltate e generiche, ma sempre legate minutamente ad una riprova razionale, verificabili sempre punto per punto in precise impressioni sensoriali. Donde consegue la constatazione di un meccanismo di stilistica che ricorda la statua di Condillac anche se nutrita di un sincero amore dell’espressione poetica e mossa da una volontà vasta di civiltà, di rappresentazione efficace: motivi anzi che collaborano e rinforzano finalmente un gusto in cui predomina lo sforzo lessicale e la funzionalità della musica e del ritmo ad un effetto, non ad un libero sfogo di fantasia, ad un impeto dell’anima come vorranno i romantici.

In questa direzione è pacifica l’abilità affascinante del Parini nella ricreazione degli oggetti nelle loro relazioni e strutture: alto giuoco stilistico e pericolosa gara fra poeta e immagine della realtà. Par quasi di attendere ogni tanto una caduta, una incrinatura, una piega. Invece ogni immagine ci si presenta perspicua ed elegante, piena di fascino sensoriale; ogni ostacolo espressivo è brillantemente superato, ogni moto di pensiero è tradotto nella sua sensibile funzione (e pur sempre avvertito nella sua possibile schematicità razionalistica), ogni azione è resa in tutta la sua snella complessità. Se questo e non invece un’alta trasformazione fantastica fosse lo scopo ultimo della poesia, il Parini sarebbe inarrivabile, esemplare per ogni poeta (ma si evoca l’agevolezza tutta fantastica, tutta musicale dell’Ariosto e si ha subito la sensazione di una perfezione mimetica, angusta pur nella sua squisitezza e nella sua storica e personale sincerità). Leggiamo la descrizione dei movimenti precisi, eleganti, organici della damina che taglia della carne:

Or si vedranno

de la candida mano all’opra intenta

i muscoli giocar soavi e molli:

e le grazie, piegandosi dintorno,

vestiran nuove forme, or da le dita

fuggevoli scorrendo, ora su l’alto

de’ bei nodi insensibili aleggiando,

ed or de le pozzette in sen cadendo

che dei nodi al confin v’impresse Amore,[15]

o la lunghissima presentazione degli oggetti che il giovin signore porta addosso:

Veggo l’Astuccio,

di pelle rilucente ornato e d’oro,

sdegnar la turba, e gli occhi tuoi primiero

occupar di sua mole: esso a mill’uopi

opportuno si vanta, e in grembo a lui,

atta agli orecchi, ai denti, ai peli, all’ugne,

vien forbita famiglia. A lui contende

i primi onori d’odorifer’onda

colmo cristal, che a la tua vita in forse

rechi soccorso, allor che il vulgo ardisce

troppo accosto vibrar da la vil salma

fastidiosi effluvi a le tue nari.

Né men pronto di quella all’uopo istesso,

l’imitante un cuscin purpureo drappo

mostra turgido il sen d’erbe odorate...[16]

Un vero tour de force secondo l’espressione di Madame de Staël e una tecnica prelibata il cui limite è in una monotonia di sostenuta e pregnante precisazione della realtà sensoriale e che, senza decadere nel basso verismo di tanti interpreti del periodo positivistico (l’entusiasmo del Mazzoni: «par di vedere dentro l’astuccio in bell’ordine, lo stecchino per gli orecchi, lo stuzzicadenti, le pinzette, le forbicine»[17]), è certo rinchiusa in una aria breve, in una ricreazione d’immagini troppo controllata sui suoi precisi e gustosi limiti sensoriali. E sarebbe errato dire che la meta ultima di questa poetica sia l’eleganza se non si aggiungesse piú storicamente che tale eleganza è il frutto di un sensistico bisogno di precisazione, d’incarnamento, anche se poco sanguigno, di ogni immagine, nitida, compiuta, sensibilmente evidente.

Ma il Giorno è il trionfo della poetica sensistico-illuministica non solo per la sua forma di cattura dell’immagine degli oggetti in giri, in ritmi che ne evidenziano la complessa realtà (si noti il raffinatissimo seppur stucchevole disegno metrico, il rilievo offerto all’evidenza delle entità descritte dai frequenti enjambements, dalle cesure, dai troncamenti improvvisi a sottolineare, a colorire, a indicare) e la mettono in relazione con un ritmo vitale indagatore e sereno, ma come un po’ angusto nella sua troppo precisata umanità (che altrove riesce a piú spaziosa se pur non altissima sanità), e per i particolari con cui questa poetica si realizza senza sbavature e filamenti; ma è il trionfo di quella poetica proprio anche per la sua generale costruzione. La stessa continuità di poema che vuole esaurire il suo tema perfettamente, a costo di stancare (e qui occorre ribattere che il notato difetto nasce non solo contenutisticamente dalla presenza uniforme del manichino «giovin signore», ma dalla volontà di completa illustrazione e dalla stessa succulenta efficacia della sensistica e classicistica evidenza), secondo uno schema preordinato dalla ragione, corrisponde alla generale tendenza illuministica di esauriente esposizione, di germinazione della poesia su di una distesa descrizione di cose e di teorie (il sofà, la teoria del piacere del Giorno). E a proposito si possono ricordare l’attenzione particolare con cui il Parini, nella sua rassegna della letteratura italiana fatta nei Principî delle belle lettere, si dilunga sui vari poemi didascalici incontrati nei vari secoli mentre parla cosí brevemente di un Dante o di un Machiavelli, e il tipo di critica esercitata a proposito della Coltivazione dei monti del Lorenzi, giudicata soprattutto per «descrizioni difficili perfettamente eseguite», «scelta d’oggetti, carattere ed evidenza di pitture nelle parti», anche se il poeta che rifiutava un descrittivismo arido e puramente utilitaristico riafferma (cosa di cui ugualmente bisogna tener conto nella presentazione della sintesi pariniana che abbiamo detto la piú feconda e completa del milieu illuministico-sensistico e della grazia arcadica) il carattere non del tutto funzionale della poesia: almeno in senso esterno e privo di quell’entusiasmo edonistico che è essenziale a questa poetica. «Quanto mi compiacerebbe ch’egli avesse riflettuto che gli argomenti di questa sorta sono un pretesto per la bella poesia, anzi che il fine assoluto di essa! che, quando si vuole istruire, convien trattare pienamente, direttamente e semplicemente il proprio soggetto, tendendo immediatamente all’utile; e che al contrario, quando si scrive in poesia, di cui è proprio il dilettevole, giova di mescolare con buona e costante economia l’utile al dilettevole stesso»[18].

Cosí, se esorbita dal nostro interesse lo studio della perfetta aderenza del Giorno all’atmosfera e alla segreta poetica del suo secolo, di quell’epoca sentimentalmente sicura e ragionevolmente rivoluzionaria, si deve pur dire come il motivo umanitario che porta nel Giorno gli accenti piú sdegnati, il motivo della poesia del quarto stato, della plebe umiliata ed offesa da una classe che il Parini giudica ormai inutile, parassitaria, vivano nella poetica del Giorno al centro della sua ironia e strettamente collaborino nella loro tipica aria settecentesca ad una poesia sensibile e razionale, capace di figure, ma piú di situazioni non direttamente fantastiche, quanto critiche, caricaturali. Il limite di una rivoluzione ragionevole si rivela cosí nel Giorno e si fa motivo, linea di costruzione poetica: donde le caricature, le macchiette, tanto piú vive quanto piú svolte in ambiente di sensibile descrizione e sottese da uno sdegno morale, quanto piú si legano in un disegno razionale a quel fondo sensistico senza il quale esse rimarrebbero vuote, come le allegorie voltairiane:

Or comanda, o signor, che tutte a schiera

vengan le grazie tue; sí che a la dama

quanto elegante esser piú puoi ti mostri.

Tengasi al fianco la sinistra mano

sotto al breve giubbon celata; e l’altra

sul finissimo lin posi, e s’asconda

vicino al cor; sublime alzisi il petto;

sorgan gli omeri entrambi; a lei converso

scenda il duttile collo; ai lati un poco

stringansi i labbri; ver lo mezzo acuti

escano alquanto; e da la bocca poi,

compendiata in forma tal, sen fugga

un non inteso mormorio.[19]

E certo qui, dove il gusto sensistico si rivela in ogni particolare, ma è solo guidato ad un’automatica caricatura, la poesia è scarsamente animata, troppo sezionata nella sua costruzione condillacchiana, mentre vive dove lo stesso gusto è acceso da un movimento che pur nasce dall’amore dell’evidenza non in quanto si contempla in funzione, ma in quanto funziona e si svolge in un ritmo non puramente espositivo, come nella scenetta delle damine sedute sul canapè.

Già le fervide amiche ad incontrarse

volano impazienti; un petto all’altro

già premonsi abbracciando; alto le gote

d’alterni baci risonar già fanno;

già strette per la man, co’ dotti fianchi

ad un tempo ambedue cadono a piombo

sopra il sofà. Qui l’una un sottil motto

vibra al cor dell’amica: e a i casi allude

che la fama narrò; quella repente

con un altro l’assale. Una nel viso

di bell’ire s’infiamma: e l’altra i vaghi

labbri un poco si morde: e cresce intanto

e quinci ognor piú violento e quindi

il trepido agitar dei duo ventagli.[20]

Anche qui simile tecnica e una lenta macchina da presa percorre la scenetta nei suoi particolari; anche qui l’aggettivazione sapientissima ed aderente («i dotti fianchi») con sfumature ironiche e nella perfezione classicista che le contiene, anche qui quella mirabile e concisa traduzione di una azione («alterni baci») in una forma definitiva e lucidissima (mimesi perfetta dell’azione nel ritmo troncato: «sopra il sofà»). Ma qui oltre la macchietta c’è una fusione, una animazione elegante e galante che nasce da un compiacimento e da un certo abbandono, che poi l’intelligenza controlla nella loro raffinata sensibilità. E non c’è un tradimento della poetica sensistica per interventi allotri, per possibili spiragli preromantici, ma anzi il suo inveramento piú illustre e compatto perché ad una tecnica sensistico-illuministica si scende da una spiritualità che trionfa in quei limiti di cultura, da un senso di personalità poetica non arido e pedantesco alla Gottsched, ma fresco, agile, al di fuori di possibili schemi Universitätphilosophen-Weltphilosophen, estremamente vitale e perciò capace di comunicare il suo piglio sobrio e concreto al romanticismo italiano. Mentre i termini tecnici di una poetica cosí precisa e gustata mostrano il massimo di una civiltà e di una tendenza, l’esaurimento a cui doveva rimediare l’irruzione in Italia, lo svilupparsi piú o meno addomesticato di una nuova sensibilità e di una nuova poetica: di cui, malgrado ogni sforzo, non si può ritrovare traccia consistente nella sintesi pariniana. Questa, mentre accenna a direzioni del neoclassicismo che troveranno man mano un’intima giustificazione diversa, rimane feconda proprio per la sua storicità, per la sua compattezza, e, mentre fiorisce sullo sviluppo di un sensismo che da razionalistico va divenendo sentimentale, si arresta in quel momento di tale linea in cui il sensismo supera la tenue precisione arcadica e la linearità classicistico-cartesiana con un senso nuovo di concretezza e di precisione non gelida. Ed il motivo comunemente meno osservato in questa maturità storica e personale, meno riferito alla pienezza di questa poetica non preromantica, ma vitalmente sensistica, è nel forte senso d’interesse umano che va dall’umanitarismo al gusto dell’obbiettiva struttura sensoriale, di una sanità intera, di una sensistica pienezza che attraverso il romanticismo ed entro diverse coordinate sembra esser risentita, con bordi meno frizzanti ed eleganti, da un Carducci nel suo impeto meno culturale. Le idealità sensistico-illuministiche convergevano nell’uomo centro della vita e il Parini, che di questo concetto di umanità fece il suo motivo ideale piú alto in un cerchio socievole, civile, controllato razionalmente, toccò a volte, con un realismo piú essenziale e libero del suo realismo meticoloso di descrittore, un fondo di sanità che in lui non contrasta, mediante esaltazioni di primitività, di rivolte rousseauiane, al senso di una ordinata, non individualistica civiltà: anzi la nutre e tende perciò con forza non nervosa tutta la sua poetica, rivelandosi preziosamente in alcuni punti piú espliciti.

Quando nell’ode L’innesto del vaiuolo leggiamo:

come biada orgogliosa in campo estivo

cresce di santi abbracciamenti il frutto,[21]

sentiamo non un contrasto con i versi di esaltazione illuministica o di presentazione sensistica, ma un risultato che presuppone un approfondimento in senso vitale di un gusto che si inquadra in armonia di misure ragionevoli, ma controllate su di una concretezza sensoriale; una solidità certo meno meticolosa, un canto piú arioso perché nato non tanto sulle precisazioni particolari, quanto sul senso piú vasto di questa severa gioia vitale. Gioia vitale non piú arcadico-idillica, ma semmai naturalistica e civile che può verificarsi nella sua fiducia sensistica, nella legittimità del piacere naturale:

O misero mortale

ove cerchi il diletto?

Ei tra le placid’ale

di natura ha ricetto:

là con avida brama

sussurrando ti chiama.[22]

Sempre coerente alla sua netta posizione spirituale, il Parini sa enuclearne questo senso sano del piacere naturale e della vita e sa costruirne un realismo concreto e nitido che sblocca spesso e arricchisce idealmente il classicismo troppo cesellato, dà piú spazio a mosse piú energiche, meno legate. Sano realismo che pur trovava possibilità piú libere nella tradizione dei capitoli in cui poeti anche aulici scaricavano le loro impressioni piú fresche, piú immediate, le loro esperienze di vita in un linguaggio convenzionalmente piú spregiudicato, ma che anche attraverso questa convenzionalità poteva stimolare i migliori ad un personale, autonomo realismo. Cosí il Parini, fuori del Giorno e delle Odi – in cui del resto la perfezione vitale della sua poetica richiede nel suo meglio la presenza di questo sottinteso robusto e pieno –, parte da una disinvolta discorsività pratica a piú alte espressioni realistiche.

Da atteggiamenti piú familiari, meno sostenuti, il sensismo pariniano si abbandona ad una precisione meno classicistica, piú istintivamente solida, con piú facile adesione alla realtà nella sua percettibilità meno miniaturistica ed icastica.

Cosí in quei rapidi e gustosi Ricordi infantili che sembrano allontanare dal figurino consueto dell’austero poeta civile, cosí nella lettera al canonico Agudio, cosí in molte «terzine» e «versi sciolti» in cui pezzi di natura, scenette d’amore si presentano con una immediatezza concreta, con un gusto del naturale piú libero dello stilizzamento sensistico-classicistico pur partendo dalle stesse radici: proprio per una minor qualificata presenza dell’elemento razionalistico che serra le linee di presa sensistica. Si scorra un idillio come Il primo bacio, ormai del tutto fuori del gusto arcadico, e si osservino, in mezzo al solito classicismo («l’arguto pioppo»), l’ingresso di forme popolari od onomatopeiche

(Tiene pendula il fuso, e con quell’atto

a cui move il timor, guardasi intorno;

e per la callaietta della siepe,

onde il prato cingevasi, entrar vede

un cane da pastor, ch’alla sua volta

anela braccheggiando. In piè si rizza

di subito; e la chioccia ed i pulcini

col noto billi billi a sé raccoglie)[23]

e l’impeto di mosse cordiali e robuste:

Ma finalmente

di feconda virtú la primavera

commovendo le piante e gli animali,

li rifigliò all’amore. E già svernava

i suoi gaudii la selva.[24]

Tanto che nel finale matura quasi un’aria ottocentesca, originata non da un gusto di macchia, ma da una estetica e morale convinzione dell’origine sensoriale di ogni affetto, della trama naturale di ogni espressione vitale.

Una mattina,

presso al tempo in cui vede il montanaro

alla pianura dileguar le nebbie,

che assise qua e là sembrano laghi,

i due pastor su le recenti erbette

riposavan del prato; oneste cose

novellando e guardandosi a dilungo,

spesso dipinti di letizia, e spesso

della melanconia...

Taciturni

poi rimasero entrambi, e le pupille,

tremolanti di un languido sorriso,

tennero immote l’un nell’altro; il sangue

nelle lor vene fluttuando rese

affannoso il respiro, e concitati

i battiti del cuore; ed il vermiglio

delle guancie smorí, come una fresca

rosa all’estivo mezzogiorno. In quello

sfinimento d’amor l’anime, accese

nell’arcana virtú, che di natura

compie il sublime intento, e piú vivace

è ne’ vergini petti; in su la bocca

raccolte si congiunser, delirando

di mutuo piacer, nel primo bacio.[25]

E alcuni spunti di poesie nuziali portano meglio a quell’alto senso di sanità e di realismo che avevamo notato nel verso citato dall’Innesto del vaiuolo:

Era gioconda immagine

di nostra mente un dí fresca donzella

allor che con la tenera

madre abbracciata o la minor sorella

sopra la soglia de’ paterni tetti

divideva gli affetti:

e rigando di lagrime

le gote che al color giugnean natio

bel color di modestia,

novo di sé facea nascer desio

nel troppo già per lei fervido petto

del caro giovinetto,

che con frequente tremito

della sua mano a lei la man premendo

la guardava sollecito,

sin che poi vinta lo venia seguendo,

benché volgesse ancor gli occhi dolenti

a gli amati parenti.[26]

E si ricordi, in mezzo ad un sonetto classicistico per nozze, quella superba immagine di sano realismo di una giovane sposa in lotta fra desiderio e pudore:

O bella Venere, per cui s’accende

la vergin timida al primo invito

d’Amore, e il giovane caldo ed ardito

a la dolcissima palma contende;

questa a te candida zona sospende

Nice, or che al talamo vien del marito,

male opponendosi, e sul fiorito

letto con trepidi ginocchi ascende.[27]

Dove ogni misura di eleganza non è disprezzata, ma superata in magnifica evidenza poetica.

Se questi sono i motivi essenziali della poesia e della poetica pariniana originata anche in questi ultimi accenni, comunemente sottolineati, da una posizione illuministico-sensistica e solidamente in quei limiti inquadrata (poesia come educazione, come evidenza di oggetti, come senso di naturale vita fatta di sane sensazioni, di calmi e piacevoli istinti, come regno di una fantasia corposa ed elegante), si può chiaramente asserire che, nella sua perfezione settecentesca e magari anche in certi richiami a certo realismo ottocentesco carducciano, nulla di essenziale lega questa poetica, questa sintesi mirabile di Arcadia, illuminismo, sensismo, su base classicistica, al preromanticismo nel suo fondo piú rivoluzionario, nei suoi accenti di nuova sensibilità, mentre al neoclassicismo, al romanticismo di un Foscolo, di un Leopardi, di un Manzoni anche, la lega la cura della parola, la sua scuola di fedeltà alla poesia, il suo morale concetto del letterato. E infatti se ricerchiamo i giudizi del Leopardi sul Parini che pure tanto stimò, leggiamo nello Zibaldone la nota frase (27 gennaio 1822): «Il Parini non aveva forza bastante di passione e di sentimento per essere un vero poeta». Giudizio che concordava con quello della romanticissima Staël che scriveva al Monti: «le Parini qui fait de tours de force avec les mots... m’a bien peu interessée... Sans doute il y a des difficultés vaincues; c’est un plaisir savant que celui-là; et je demande des impressions naturelles, immédiates, qui partent de la source pour arriver à la source; toutes ces poésies mosaïques ne valent pas une ébauche de génie»[28].

Giudizi, specie il secondo, con margine di esagerazione, ma significativi per indicare i limiti che proprio i romantici, anche romantici come il Leopardi, potevano trovare nel Parini, in una poesia costruita in perfetto equilibrio di cultura e di ispirazione, in cui la precisione dell’artista educato alla scuola dei classici coincide con la precisione evidenziatrice del sensista che insieme invera la schematica grazia arcadica in una eleganza piú solida, ma ricca di sfumature: infine in quel Parini che un’ammiratrice, la Silvia Verza, aveva chiamato «grande pittore di verità»[29], ciò che in fondo rimaneva in quella civiltà ancora il massimo elogio, nel particolare senso che la verità e la pittura avevano di eleganza, di evidenza non gelida, di sensibilità vivace e pacificata.

Nelle ultime Odi, accanto agli accenni al neoclassicismo piú arioso che non mancavano neppure del tutto nelle prime

(E Tetide che udiva

a la fera divina

plaudia da la marina),[30]

si può notare come la galanteria del vecchio poeta («il vecchierello immaginoso» di cui parla in una lettera dell’89)[31] possa spingersi a quadri di perfezione mossa da una sospirosa malinconia:

Colpito allor da brivido

religioso il core

fermerà il passo, e attonito

udrà del tuo cantore

le commosse reliquie

sotto la terra argute sibilar.[32]

Ma non occorre un esame molto profondo per sentire quanto questi toni sono sostenuti, controllatissimi e come autoironici e come la loro meta è pur sempre, in una poetica non di abbandoni, ma di misure fermissime (perfino le sfumature vi son calcolate), un superiore arricchimento di linee perfette, senza impeto.

E cosa sarebbe diventato nelle mani di un Viale o di un Alessandro Verri o di una Saluzzo il tema dell’Ode a Silvia? Mentre in Parini, anche nel quadro potente della decadenza romana, dove sangue e lussuria affiorano violentemente, una ferrea volontà illuministica ed una sanità impeccabile negano qualsiasi concessione al gusto di un orrore morboso, di una fantasia sensuale e stravolta. Efficacia, evidenza sensibile, ma nessun predominio assoluto di sensibilità e sentimentalità. Sí, tra le poesie meno impegnative si possono trovare tre sonetti sulla Malinconia, piuttosto suggestionati da un macabro convenzionale che non animati dalla nuova sensibilità e misti di strani movimenti diversi, crudamente forti

(Ma tu parli, o mio cor? Di durar forte

già ti se’ stanco? Deh tu vieni, e in petto

questo debole cor strozzami, o Morte!),[33]

abbandonati e invocativi, alla Collenuccio

(Oh Morte, oh bella Morte, oh cara Morte,

tu vieni or dunque, e a me dolce sorridi?),[34]

o piú decisamente aspiranti ad un risultato di lugubre grandioso

(Pace, orror queto, pace, o non mai mossa

sepolcral aria ove ogni cura tace;

pace, o ceneri miste, o teschi, o ossa!),[35]

ma la loro ispirazione è cosí eterogenea e letteraria che non possono indicare altro che un esercizio piú motivato da esempi di sonetti baroccheggianti che non da volontà di adesione alla nuova moda poetica, che ad ogni modo il Parini sfiorò appena per ripudiarla violentemente in maniera inequivoca[36].

Vedrò, vedrò da le mal nate fonti

che di zolfo e d’impura

fiamma e di nebbia oscura

scendon l’Italia ad infettar da i monti;

vedrò la gioventude

i labbri torcer disdegnosi e schivi;

e a i limpidi tornar di Grecia rivi

onde natura schiude

almo sapor che a sé contrario il folle

secol non gusta, e pur con laudi estolle.

Dice nella Gratitudine (vv. 201-210) nel 1791 e non pare giustificata la nota in proposito del Mazzoni[37]: «Ma chi conosce le opere del Parini sa come egli stesso in piú luoghi dimostra d’aver attinto a quelle fonti e d’essersi felicemente inspirato ad alcuni di quei modelli stranieri».

Nella Notte, tanto piú tarda delle prime due parti e della versione cesarottiana dell’Ossian, compare nel brano iniziale (4-29) una insolita scelta di soggetti tipicamente preromantici, di toni lugubri perfino in un cumulo esagerato, sovrabbondante:

Già, di tenebre involta e di perigli,

sola, squallida, mesta alto sedevi

su la timida terra. Il debil raggio

de le stelle remote e de’ pianeti

che nel silenzio camminando vanno

rompea gli orrori tuoi sol quanto è d’uopo

a sentirli assai piú. Terribil ombra

giganteggiando si vedea salire

su per le case e su per l’alte torri

di teschi antiqui seminate ai piedi:

e upupe e gufi e mostri avversi al sole

svolazzavan per essa, e con ferali

stridi portavan miserandi auguri:

e lievi dal terreno e smorte fiamme

sorgeano in tanto; e quelle smorte fiamme

di su, di giú vagavano per l’aere

orribilmente tacito ed opaco;

e al sospettoso adultero, che lento

col cappel su le ciglia, e tutto avvolto

entro al manto, sen gia con l’armi ascose,

colpieno il core e lo strignean d’affanno.

E fama è ancor che pallide fantasime

lungo le mura de i deserti tetti

spargean lungo, acutissimo lamento,

cui di lontano per lo vasto buio

i cani rispondevano ululando.

Il Foscolo citò alcuni brani di questa pagina nel Gazzettino del bel mondo[38] quasi per mostrare nella polemica contro i romantici che anche un classicista come il Parini sapeva «dipingere da maestro gli spauracchi di que’ castelli» senza perciò farne il soggetto costante della sua poesia. E il Foscolo certamente risentí questi versi, ma con altra intonazione e con una diversa preparazione sentimentale, nei Sepolcri, dove parla della fossa comune dove giace il Parini: e con tanta accentuazione fosca da farne un vero e proprio quadro di genere, mosso tuttavia dalla precedente adesione ortisiana al predominio del lugubre e dalla generale ispirazione cimiteriale che trovava radici non letterarie nel suo animo. Ma nel Parini noi non possiamo considerare questo quadro di genere se non come un pezzo di bravura (indice esterno della diffusione del gusto preromantico) e forse perfino come una utilizzazione gustosa, tra efficace e lieta, di quella moda e non mai fuori di quel disegno che subordina il brano descrittivo al contrasto ironico di quella notte medievale con la notte lussuosa della nobiltà settecentesca: e perciò è tanto piú calcato il primo termine in un contrasto insieme divertente e tonalmente adatto a suscitare un’aria tra solenne, notturna e grottesca. E nulla di piú e di diverso ci offre un altro brano della Notte, il frammento IX p. 268, vol. I delle Poesie.

Di fronte alla sentimentalità eccitata, allo sviluppo del sensismo in preromanticismo, al gusto dell’orrore che sconvolge, come un nuovo contenuto di anima, la poetica settecentesca e l’avvia verso quella romantica, il Parini non ci offre nulla di piú di quella sensibilità delicata, sfumata e pur precisa, limitata, di quella voluttà settecentesca provocata, ad es., dal quadretto di Adone ferito alla fine del Dono:

Caro dolore, e specie

gradevol di spavento

è mirar finto in tavola

e squallido, e di lento

sangue rigato il giovane

che dal crudo cinghiale ucciso fu.

Ma sovra lui se pendere

la madre degli Amori,

cingendol con le rosee

braccia si vede, i cori

oh quanto allor si sentono

da giocondo tumulto agitar piú![39]

Non sono punte che fuoriescono da questo gusto perfetto nei suoi limiti, tracce di diversa sensibilità che giustifichino l’inserzione del Parini nella storia del preromanticismo. Anzi mostrano ancor piú chiaramente la completezza e la concretezza della sua sintesi che raccoglie ed invera i motivi piú generali del Settecento illuministico nel suo equilibrio razionalistico e classicistico sulla base di un sensismo ricco, ma non spostato ancora a soluzioni piú frementi e rivoluzionarie, frenato nel limite edonistico e chiaro di un utile dulci, calato come non mai in un linguaggio coerente, perfetto.


1 Parini, Poesie, a cura di E. Bellorini, Bari 1929, II, p. 321.

2 Il Giorno. Poesie e prose varie, a c. di L. Caretti, Firenze 1969, pp. 505-506.

3 Parini, Prose, a c. di E. Bellorini, Bari 1913, I, p. 381; le prose si citeranno sempre da questa edizione.

4 D. Petrini, La poesia e l’arte di G. Parini, Bari 1929, p. 16.

5 Prose, ed. cit., I, pp. 315-316 (corsivo nostro).

6 Ivi, I, p. 324.

7 Ivi, I, p. 153.

8 Il Parini si sente lombardo prima che italiano e anche qui si può notare la differenza in senso romantico dall’Alfieri. Si vedano le lettere al padre Branda sulla milanesità, sulla difesa della lingua milanese. I termini piú veramente settecenteschi sono Cittadino e Weltbürger.

9 Si tenga conto per le relazioni fra il Parini e i teorici sensistici del lavoro di R. Spongano, La poetica del sensismo e la poesia del Parini, Messina 1933.

10 Salubrità dell’aria, vv. 109-115.

11 L’educazione, vv. 109-114.

12 L’innesto del vaiuolo, vv. 172-173.

13 Dalla nota formula del Petrini, utilizzabile particolarmente in uno studio di poetica che cerca nuclei centrali di gusto, non deriva affatto un’insanabile divisione e quasi una tentazione operante, malgrado un’ipotetica censura morale. Il fascino dell’eleganza non è subíto, ma corrisponde ad un intimo ideale estetico del Parini.

14 C. Beccaria, Ricerche intorno alla natura dello stile, in Opere, a c. di S. Romagnoli, Firenze 1958, I, pp. 247-248.

15 Meriggio, vv. 392-400 (ed. Caretti, p. 201).

16 Mattino, vv. 842 ss. (dell’ed. 1763; ed. Caretti, p. 68).

17 G. Parini, Le Odi, il Giorno e poesie minori, a cura di G. Mazzoni, Firenze 1938, p. 215. Quegli entusiasmi che molto piú arbitrariamente esplosero ed esplodono ancora davanti alla «tenace pece» e ad ogni immagine dantesca che sembri descrizione e riproduzione efficace e vicina di realtà.

18 Prose, ed. cit., I, pp. 147-148.

19 Meriggio, vv. 91 ss. (ed. Caretti, p. 190).

20 Vespro, vv. 270 ss. (ed. Caretti, p. 242).

21 L’innesto del vaiuolo, vv. 37-38.

22 La musica, vv. 19-24.

23 Poesie (ed. Bellorini), II, p. 191.

24 Ivi, II, p. 194.

25 Ivi, II, pp. 194-195.

26 Ivi, II, pp. 219.

27 Ivi, II, pp. 298.

28 Lettres de V. Monti à Mme de Staël pendant l’année 1805, edite da J. Luchaire in «Bulletin italien», Bordeaux 1906, lettera IX.

29 Prose, II, p. 187.

30 L’educazione, vv. 166-168 (ed. Caretti, p. 327).

31 Prose, II, p. 189.

32 Il Messaggio, vv. 127-132 (ed. Caretti, p. 427).

33 Poesie, II, p. 286 (ed. Caretti, p. 553).

34 Ivi, II, p. 287 (ed. Caretti, p. 554).

35 Ivi, II, p. 287 (ed. Caretti, p. 554).

36 Poiché è molto equivoca semmai la sporadica accettazione di cadenze o meglio di temi simili ai nuovi, esitante fra amplificazioni letterarie e gustose utilizzazioni in un tessuto fondamentalmente ironico. Cosí è un’amplificazione letteraria in vista di un grandioso tiepolesco, in cui può risuonare poco decisiva e poco congeniale qualche reminiscenza ossianesca, l’ode Il tempo, che del resto, ospitata dal Foscolo nella sua Poesia lirica (Prose letterarie, II, p. 340), fu creduta da lui e dal Mazzoni o imitazione o forse traduzione dall’inglese (Churchill secondo il Mazzoni). Per noi l’attribuzione è incertissima e lontanissima l’ispirazione e il fare da quelli pariniani.

37 Odi, ed. cit., p. 132.

38 Lettere scritte dall’Inghilterra (Gazzettino del bel mondo) in U. Foscolo, Opere, ed. naz., vol. V, a c. di M. Fubini, Firenze 1951, pp. 359-360.

39 Il dono, vv. 37-48 (ed. Caretti, pp. 403-404).